Rame, polenta e gergo Ammascante
La festa dei Calderai di Dipignano
(artigiani nomadi delle serre cosentine)
celebra la secolare amicizia con il borgo di Ponti
Fotoracconto di Franco Scarpino | 19 Settembre 2017
«Cristoforo Del Carretto fu un uomo di parola. Nel 1571 a Ponti, in provincia di Alessandria, fece recapitare ai calderai arrivati da Dipignano, stanchi e affamati, un grande quantitativo di farina di mais. I ramai calabresi furono capaci di aggiustare un vecchio paiolo delle sue cucine e così ricevettero in cambio tanta farina gialla. Prepararono un’abbondante polenta e le massaie con le cocche del grembiule in mano portarono chi uova, chi cipolle, chi merluzzo e un vinello per cucinare una frittata». Lo storico Franco Michele Greco, che ai Calderai ha dedicato un libro (Gente Calderaia, Le Nuvole edizioni), rievoca il viaggio degli antichi ramai fino al borgo di Ponti. Un’esperienza da cui è nata un’amicizia secolare fra i due popoli. E una grande festa che si celebra da 50 anni: è la Sagra della Polenta che consolida la vicinanza della comunità dipignanese e quella pontina. Il 2 maggio 1965 il sindaco di Dipignano Riccardo Mele e Carlo Caneparo, sindaco di Ponti, ufficializzarono per la prima volta il gemellaggio, impegnandosi rispettivamente a “mantenere legami permanenti tra le municipalità delle nostre città e di favorire in ogni campo gli scambi tra i loro abitanti per sviluppare il sentimento vivo della fraternità”.
Polenta e corteo
Così anche quest’anno i cuochi di Ponti hanno cucinato una polenta di 10 quintali e una frittata di 3000 uova con 150 chilogrammi di merluzzo e 300 chilogrammi di cipolle. Con i costumi d’epoca e il suono dei tamburi e delle pentole di rame, il corteo ha sfilato per le vie del paese per ritrovarsi in Piazza dei Martiri, dove Luigi Greco, nipote di uno degli ultimi calderai, ha recitato in modo appassionato l'antica richiesta rivolta al Marchese.
Gli artigiani nomadi del Casale cosentino
Conosciuti già dal 1300 i Calderai di Dipignano hanno creato un’arte e un mestiere che vive ancora oggi nei ricordi, nella lingua e nei canti locali. Citati dal Barrio, storico del ‘500, i mastri ramai del Casale cosentino “producevano ed anche assai bene, oggetti di rame di varia specie, e cioè caldaie, paioli, catini, caccavi, ed altri utensili simili”. Artigiani nomadi e grandi maestri nell’arte della lavorazione del rame, viaggiavano per la Calabria e nelle regioni limitrofe per riparare vecchie “quadare” (caldaia di rame) e vendere nuovi utensili a pastori e mandriani che incontravano lungo il viaggio.
U quadararu passa
“U quadararu… u quadararu passa”: così veniva annunciato il loro arrivo nei paesi e negli stazzi. Mare o montagna non faceva differenza, l’importante era non rivelare i segreti del mestiere. Per questo i calderai coniarono un gergo segreto: l’Ammâšcânte o, come veniva chiamato da loro, ‘A parra a mascho, la lingua mascherata. Una lingua fatta di simboli, musica e metafore che, oltre a proteggere gli antichi saperi, serviva anche come forma di tutela dagli imprevisti che potevano presentarsi lungo i vecchi tratturi.
In Ammâšcânte i Calderai chiamavano la propria moglie “Minèca di tawânâ”, “la donna della sveglia mattutina”. La prima donna medico di Cosenza è stata proprio la figlia di un Calderaio di Dipignano, Cusina de Pastino.
Quasi dimenticato negli ultimi anni, il gergo dei quadarari è stato recuperato grazie al lavoro di ricerca scientifica fatto da John B. Trumper, noto docente di glottologia all’Università della Calabria, che ha recuperato le tracce dell’Ammâšcânte, codificandolo in un dizionario. Dagli studi di Trumper è nato nel 2013 “Ammâšcâ”, un’opera corale che insieme al dizionario Ammâšcânte-Italiano, raccoglie un bellissimo disco realizzato dal Collettivo Dedalus. È arrivato secondo al Premio Tenco, con le poesie del poeta calabrese Franco Araniti e i saggi di Marta Maddalon e Franco Michele Greco.
Messaggini in Ammascante, la lingua mascherata
Nelle botteghe e nelle forge ramare di Dipignano, parlando in Ammascante, i maschéri (maestri artigiani) con le mani incallite, insegnavano l’antico mestiere ai giovani erbari (operai), realizzando quadare e utensili modellati al fuoco con il solo uso del martello e dei mantici fatti con pelle di capra.
I figli e nipoti degli ultimi calderai, un po' per l'emigrazione un po' per l'avvento della tecnologia, non hanno mantenuta viva la tradizione. Della lingua restano tracce nella toponomastica e nel dialetto. Ma oggi i figli degli emigranti, che vivono in Canada, Australia, Argentina e conoscono lo studio del professor Trumper e il vocabolario si mandano i messaggini in Ammascante. È una speranza, non tutto è andato perduto.